Palermo 14 marzo 2007  
Uno studio di Giovanni Ruffino sull´avversione per il siciliano
La lingua non è più madre
I ragazzini la associano a qualcosa di volgare o al codice della mafia
Una testimonianza-choc "Lo parlano i bambini sporchi maleducati e poveri"
Al questionario hanno risposto 167 scuole per novemila elaborati

La percentuale di chi lo conosce è scesa del 40 per cento dal ´78 al 2005 Il dialetto è brutto, sporco, rozzo, malavitoso e «stradaiolo». I bambini pensano tutto il male possibile della lingua dei padri. Lo «certifica» una ricerca avviata nel 1995 dall´Istituto di Linguistica della facoltà di Lettere di Palermo, le cui analisi appena concluse sono oggetto del libro "L´indialetto ha la faccia scura - Giudizi e pregiudizi linguistici dei bambini italiani" di Giovanni Ruffino (Sellerio, 290 pagine, 18 euro).
Via via che si scende dalle Alpi verso il Mediterraneo gli epiteti negativi sul vernacolo si incrementano. In Sicilia poi l´avversione raggiunge il picco massimo. L´équipe di Ruffino, preside di Lettere e coordinatore del progetto, ha inoltrato a trecento scuole elementari italiane un questionario da sottoporre agli scolari senza alcun condizionamento da parte dei maestri. Hanno risposto 167 istituti - equamente distribuiti nel territorio nazionale - per un totale di quasi 9 mila elaborati. Un campionario molto rappresentativo per trarre conclusioni con il crisma della scientificità. La prova che le risposte siano esclusiva farina del sacco degli alunni è nel gran numero di strafalcioni di cui sono farcite, compreso quello ostentato nel titolo del libro.
Ecco le riflessioni degli studiosi che hanno analizzato il questionario: l´erosione continua del dialetto a opera dell´italiano (ma questa non è una novità); la trasformazione del vernacolo in chiave televisiva (caso Camilleri docet); la dequalificazione del siciliano che trova il terreno di coltura nella scuola e nelle famiglie; la scarsa capacità di invenzione in quelle realtà che hanno perduto consistenza economica e sociale (pensiamo alla cultura contadina ormai in via di estinzione). E a dispetto di tutto ciò, la sorprendente tenuta - ovviamente relativa - degli idiomi locali se si considera la pericolosa deriva durante il fascismo e poi negli anni Sessanta.
«Le tante isole linguistiche del Paese per fortuna non si sono ancora trasformate in ghetto», dice Ruffino. C´è un´altra considerazione che attenua un po´ il pessimismo: i ragazzini quando ragionano fuori dagli schemi del pregiudizio, riconoscono fino in fondo il valore del dialetto (e questa è una novità). Lo definiscono la lingua della fantasia, dell´allegria, una sorta di primo amore dell´espressività.
Un florilegio tratto dal pensiero dei ragazzini isolani (le frasi sono trascritte con tutti gli errori), mette a nudo le tante contraddizioni della questione. Il dialetto è mafioso: «Chi parla il dialetto non ha la coscienza pulita», «Chi parla il dialetto è cattivo e delinquente», «Il dialetto si parla coi mafiosi», «Il dialetto è una lingua sbagliata e scorretta come i boss di Cosa nostra».
È una cosa da poveracci: «Il siciliano è più volgare e lo parlano i bambini sporchi, maleducati, cattivi e poveri», «La lingua secondo me e più adatta ai signori di lusso e invece il dialetto e più adatto ai contadini insomma gente povera».
È «roba» da strada: «L´indialetto non mi piace perché è brutto e si parla in mezzo alla strada, vorrei che in Sicilia tutti parlassero italiano, compresi i delinquenti».
È meridionale: «Io volevo nascere a Firenze no a partinico ma il mio destino è stato questo».
È di ieri: «Ormai si è perso il dialetto che si parlava a quei tempi e invece ora si parla il dialetto "incarcariato"».
È diseducativo: «L´indialetto per i bambini non è il parlamento giusto».
Non serve per i quiz: «Bisogna parlare anche in Italiano perché dobbiamo saper rispondere bene alle domande di uno spettacolo televisivo ad esempio: "Tutti per uno", "Ok il prezzo è giusto"».
E nemmeno per l´amore: «Se un maschio dice a una donna: "sei bella", lei si emoziona invece se un maschio dice a una donna "chi sì bedda" la donna si emoziona però non le piace come le è stato detto».
Sono in tanti i ragazzini che hanno chiaro il valore intrinseco del dialetto e la sua ricchezza creativa. Per loro è un destino, ma anche un piacere: «Il siciliano viene parlato per origine l´italiano per educazione», «Secondo me con il dialetto ci si nasce», «L´italiano è molto gentile è invece il dialetto è scortese, però a me mi piace il dialetto, «Certe volte parliamo in siciliano perché questa è la nostra lingua e ci score il sangue siciliano». E c´è, infine, chi chiosa con ironia: «Io con i miei amici ci parlo, invece in dialetto i ci parru».
La chiave di volta è tutta in questa frase: «Non capisco perché oggi i genitori non vogliono insegnare ai propri figli la lingua che parlavano un tempo i loro nonni, i bis-nonni, i bis bis nonni, la lingua che si parlava ai tempi di Salvatore Giuliano». Ovviamente il ragazzino in questione è di Montelepre. La sua riflessione comunque rimanda al secolare braccio di ferro tra lingua e dialetto e ai luoghi del conflitto. Intanto, vediamo quando si inceppa la corsa del vernacolo. Con la costituzione dello Stato unitario si pone il problema della creazione di una lingua nazionale per mettere in collegamento le varie isole dell´arcipelago vernacolare. La scuola viene investita della missione di sradicare la mala pianta degli idiomi locali. Ma nella prima fase più che all´estirpazione del «volgare», l´intervento mira alla diffusione dell´italiano. È con il fascismo che il dialetto diventa tabù. Parlarlo è un peccato e poi un reato.
La scuola punisce chi non parla l´italiano e la famiglia investe grandi energie per allontanare i figli dalla loro lingua naturale. Qualche apertura nel dopoguerra (vedi l´esperienza di don Milani a Barbiana e di altri docenti illuminati in giro per il Paese), non riesce a contrastare l´andazzo. In aula bacchettate e voti bassi a chi non si piega. Nelle case il dialetto è appena tollerato, ma fuori dalle mura diventa una sorta di umiliazione per l´intero nucleo familiare. Così mentre l´italiano va via via caricandosi di connotazioni positive, il dialetto diventa sinonimo di turpiloquio, al di là del significato che esprime. I ragazzi diventano il terminale di questo intervento a tenaglia, che finisce per fomentare una sorta di genocidio delle parole. La televisione fa il resto. Contribuisce più della scolarizzazione alla creazione della lingua condivisa, ma si fa artefice di un impoverimento espressivo, comprovato dal fatto che prima dell´alfabetizzazione di massa il cittadino siciliano medio si esprime con circa 1.500 parole, mentre oggi parla con un frasario molto più ridotto. E quando la tv propone il dialetto, lo fa nei modi caricaturali della comicità regionale (romanesco, milanese, napoletano e siciliano, soprattutto) oppure inscenando forme italianizzate del dialetto («Montalbano sono», «minchia» in tutte le salse e quasi in ogni programma di intrattenimento), che forse è una ulteriore tappa del suo lento assassinio.
In una forbice che racchiude trent´anni di storia, il senso profondo dell´inarrestabile agonia: Maria Benenati e Concetta Agueci, madre e figlia, entrambe laureate in Lettere con Ruffino, hanno condotto due rilevamenti linguistici a quasi trent´anni di distanza, con la stessa metodologia e negli stessi luoghi. Risultato: nel 1978, l´80 per cento dei bambini parla in dialetto, nel 2005 appena il 40 per cento. In mezzo la perdita di centinaia di parole: da «stuppagghiu» (turacciolo) a «iuzzu» (tacchino), da «taddarita» (pipistrello) a «cannavazzu» (straccio). Particolare curioso: nel 2005 contrariamente al 1978, nessuno sa tradurre la parola «strummula» (trottola). Del resto, come fai a conoscere un oggetto con il quale non giochi più e la cui funzione è stata espropriata dall´impero della globalizzazione che l´ha messa in vendita con il nome di "Bey blade"?

Tano Gullo